Content#1

2021, Palazzo Odescalchi

Testo critico di Davide Silvioli
9 dicembre 2021 – 9 gennaio 2022 | Struttura, Palazzo Odescalchi, Roma

Content #1_Su una certa idea di immagini_p.I
Federica Di Pietrantonio, Alessandro Calizza.

“Resta da sapere chi sia autorizzato a mostrarsi ma soprattutto a mostrare, montare, a immaginare, a interpretare e a sfruttare le immagini”
J.Derrida, B.Stiegler, Ecografie della televisione, 1996.

CONTENT verifica l’entità che sta assumendo il “contenuto” in una cultura visiva in metamorfosi, ovvero la proporzione che regola medium ed espressione, sperimentando l’obsolescenza dello spazio a tre dimensioni, le possibilità di conversione dei linguaggi, la relatività dei mezzi, la permeabilità dei codici. Il primo appuntamento di CONTENT, avvalendosi di lavori inediti di Federica di Pietrantonio ed Alessandro Calizza, al netto del loro approccio, individua i problemi estetici su cui insiste l’intero progetto, ponendo il fondamento per la progressione delle due fasi successive.

Che sia di matrice oggettiva o soggettiva, l’odierna civiltà ipermediatica sta acuendo la distanza fra la realtà e la sua rappresentazione, poiché i prodotti della sofisticazione tecnologica si vanno frapponendo con capillarità crescente tra il soggetto e la sua interpretazione del mondo, al punto di determinare i modi. Diversamente, è plausibile che la contemporaneità, come effetto collaterale della corrente ipertrofia digitale, stia generando le strutture elementari per ampliare il suo dominio di pertinenza, implicando una revisione del concetto stesso di “realtà”. è appurato, dell’immagine, che, conseguentemente al passaggio da codice (statico) a software (dinamico), è divenuta il vettore del senso estetico dell’attuale società ad alto consumo visivo. Su tali premesse, l’estetica delle opere di CONTENT #1 si fa carico dello scarto tra atomo e pixel, della corruzione della tecnica, del divenire del refreh time del monitor, dell’esistenza svolta da remoto, dell’ambiente intimo quale luogo multimediale, dell’empatia con le interfacce virtuali.

I lavori di Federica Di Pietrantonio avvertono l’influenza dell’universo del gaming. Oggigiorno, le modalità e le soluzioni videoludiche sono sempre più immersive, fino a replicare la quotidianità, in prima persona. Pertanto, a fronte di una oggettività e di una soggettività intensamente diluite nel virtuale, al punto di liquefarsi, l’artista ricerca punti di contaminazione fra l’esperienza della realtà e la percezione della sua simulazione. Nei lavori in mostra, basati sul videogioco The Sims, l’oscillazione da una dimensione all’altra avviene sia tramite la bidimensionalità della pittura che attraverso la tridimensionalità della scultura, concepita come installazione in raccordo con un video.

Nell’opera pittorica, estratti di scenografie e di avatar virtuali sono trasferiti sul perimetro circoscritto della tela. Qui il simulato viene convertito in fisico e sintetizzato ai rispettivi tratti strutturali, che acquistano l’irregolarità della stesura manuale, definendo un apparato visivo essenziale e foriero di peculiarità afferenti tanto all’ambito del reale quanto del virtuale. Su questa linea, l’installazione in das pone maggiormente in crisi le possibilità di individuare una demarcazione netta fra i due ordini. L’artista ha eseguito le singole opere sulla falsariga delle riproduzioni dei vestiti dismessi presenti nel videogame, adottando due metodologie diversificate. Mentre in alcuni casi le sculture sono state costituite a partire da esempi offerti dal software, rispecchiando le texture, le conformazioni e i colori, in altri sono state compiute su modello di indumenti reali fotografati dall’artista – a volte di sua proprietà- senza il riferimento, perciò, a un prototipo preliminare fornito dal videogioco. Quindi, l’autrice, nell’ultima circostanza, ha creato le sculture autonomamente, dando corpo – sulla base di vestiti veri e propri – a oggetti che il programma non ha mai generato, tuttavia perfettamente assimilabili sia all’estetica di The Sims che agli altri pezzi che compongono questo intervento, perchè ne ricalcano ugualmente le prerogative formali e cromatiche. Nei lavori della Di Pietrantonio, ogni tentativo di riconoscere una linea di confine risulta sterile, annullandosi nel nesso della fluidità con cui l’artista connette memoria personale e database, physis e rendering.

La ricerca di Alessandro Calizza affronta il problema del linguaggio visivo, da un’angolazione mirata ad accentuarne le idiosincrasie congenite. Il suo lavoro, così orientato, intercetta questioni relative all’intero decorso dell’immagine digitalizzata e, indirettamente, a quello dei dispositivi che ne decretano la sussistenza e la fruizione, quindi della sua primogenitura fino all’inevitabile inadeguatezza. L’immagine digitale, come un processo di ricodificazione, è da lui analizzata sperimentandone l’ibridazione con tecniche artistiche tradizionali.Così impostata, la sua speculazione si concreta mediante un metodo intriso di significato, che sottopone il dato visivo a un autentico procedimento di conversione e riformulazione. Quest’ultimo prevede la realizzazione di un modello iniziale di software Microsoft Paint, una tecnologia lo-fi utile a far emergere il potenziale di disfunzionalità di qualsiasi strumento, per poi essere tradotto su supporti fisici differenti e con ricorso a tecniche plurali. L’estetica composita e volontariamente stridente che contrassegna il suo alfabeto è l’esito coerente di questo cortocircuito operativo. Come ravvisabile nelle opere in mostra, difatti, l’autore ha lavorato su tela con la pittura acrilica insieme al carboncino e su carta con l’incisione a punta secca rifinito in acrilico, restituendo quanto da lui precedentemente effettuato in drawing su foglio elettronico, con il programma informatico. Come una prospettiva imperfetta, lo sfondo sezionato della tela conferisce visibilità alle coordinate spaziali di Paint dove, dentro questa porzione anomala di spazio, sono presenti le componenti che completano l’apparato visivo. Queste riflettono la trasversalità del modo di leggere la costruzione dell’immagine da parte dell’artista, il quale stabilisce una crasi tra registro alto e basso, commistionando una figurazione della eco classica, il dettaglio pop e il lettering. Nelle incisioni, dove si intravede una parentela stilistica con la pratica del Bad painting, un tratto infantile tradisce inquietudini tanto personali quanto collettive. I lavori di Calizza, in mostra, sono relazionati da uno studio sulla linea che, ora spezzata o “pixelata”ma sempre dipinta, rimane l’elemento grafico che ricuce l’identità polimorfa e schizofrenica dell’immagine contemporanea.

Davide Silvioli