Instroduzione al catalogo Atene Brucia di Marcello Barbanera
La Gipsoteca archeologica della Sapienza si chiamava all’origine Museo dei Gessi. Lo fondò l’archeologo austriaco Emanuel Löwy, il primo professore di storia dell’arte antica a Roma dopo l’Unità. Era il 1892, la fotografia era un mezzo usato con frequenza ma i libri erano quasi aniconici; talvolta alcuni disegni illustravano le opere più importanti. All’epoca, sebbene l’archeologia ‘da campo’ si facesse su vasta scala (si pensi agli scavi sull’Acropoli, nei santuari di Delfi e Olimpia), l’insegnamento archeologico si basava soprattutto sui monumenti figurati e tra questi le sculture costituivano l’oggetto principe della ricerca. Attraverso lo studio di riproduzioni romane di celebri sculture greche si cercava di ricostruire l’immagine perduta dei Meisterwerke, dei capolavori, come recitava un celebre libro (1893) dell’autorevole archeologo Adolf Furtwängler. Le gipsoteche erano lo specchio di questa tendenza degli studi: documentavano stili, scuole e le opere che venivano attribuite a uno scultore. Così gli studenti potevano avere davanti ai loro occhi le sembianze reali di un atleta, di dei, eroi, offerenti ecc. Talvolta, attraverso il gesso si poteva in via ipotetica dar forma a una scultura frammentaria. Löwy portò a Roma una tradizione dell’archeologia tedesca e si preoccupò che la Gipsoteca acquistasse calchi di sculture greche, soprattutto di periodo arcaico e classico, dato che gli studenti potevano osservare le copie romane – per lo più di sculture ellenistiche – nei musei della Capitale. Con ciò creò un’istituzione che non ha eguali in Italia, per dimensioni e numero delle opere, dato che le altre sparse per la Penisola posseggono solo qualche decina di esemplari.
Sono passati esattamente 125 anni dalla fondazione della Gipsoteca e la collezione, oltre ad accrescersi fino a oltre un migliaio di calchi, è passata attraverso traslochi (da Testaccio all’Ospizio di San Michele a Trastevere fino alla Città universitaria), restauri e riallestimenti, l’ultimo dei quali data alla seconda metà degli anni ’90. Già all’epoca cercammo di dare una configurazione nuova alla Gipsoteca, creando spazi per mostre, spettacoli teatrali e concerti. Oggi vi sono due modi di utilizzare un simile spazio: concepirlo come il fossile di un’archeologia desueta e anacronistica o come spazio aperto alle proposte e alle suggestioni che vengono da ambiti differenti. La scultura infatti non è più il fulcro degli studi archeologici e anche quando viene studiata lo si fa prediligendo un punto di vista antropologico, non variazioni stilistiche o problemi attributivi che finiscono per lo più in una morta gora. La mostra Atene brucia di Alessandro Calizza, così come le precedenti promosse durante la mia direzione (da Novembre 2015) – Confluenze nel 2016, Conoscenza e misericordia tra il 2016 e il 2017 – sono un segno chiaro del corso che darò al Museo dell’Arte classica (altro nome anacronistico, dato negli anni ’30 e che rispecchia la concezione dell’archeologia di quegli anni): apertura a tutte le istituzioni di Sapienza ed esterne che hanno proposte interessanti, dialogo tra antico e contemporaneo, sguardo sulla creatività classica attraverso la sollecitazione dell’occhio degli artisti contemporanei. È questo l’unico modo in cui l’antichità può essere rivitalizzata. Seguendo questo assunto ora archeologia, patrimonio e arte si intrecciano attraverso un ampio spettro di concetti e pratiche che comprendono interventi di artisti in spazi museali e siti archeologici e interpretazioni archeologiche che prendono ispirazione dall’arte contemporanea: negli ultimi anni queste contaminazioni sono diventate una vivace zona di ricerca ed è mio scopo fare della Gipsoteca archeologica un luogo vitale che testimoni queste contaminazioni e suggerisca di gettare uno sguardo nuovo sull’antichità.