Alessandro Calizza. Nel pop surrelism c’è molto altro, è un nuovo modo di fare e pensare l’arte

2012, Eos Arte.
Di Rossana Calbi

Colori accesi su fondo grigio, un mondo surreale per una mostra che racconta una nuova arte surreale. Alessandro Calizza è uno dei protagonisti di Surreality Show, la collettiva che riapre le porte dello spazio espositivo romano Officina 468.


Fino al 15 dicembre, SNUB riapre le porte di Officina 468. Un albero che nasce nel deserto e, con il unico occhio, osserva il mondo che lo vuole assurdamente viola. Alessandro Calizza racconta come nasce il mondo statico e paradossale in cui fa crescere il suo SNUB.

Sei un artista autodidatta, l’incisione è il tuo nuovo approdo. Usi il simbolismo utilizzando tecniche antiche, spiegaci la tua combinazione tra il “sogno moderno” e l’espressione antica.
Trovo davvero stimolante confrontarmi con una tecnica, quale l’incisione, che richiama un fare antico ma al tempo stesso si presta perfettamente per “servire” discorsi e linguaggi quanto mai attuali. Credo che nel mio lavoro si crei un contrasto tra codici e simboli contemporanei con il mezzo antico così da dare ancora più forza all’opera. Inoltre, si è costretti a confrontarsi con le peculiarità di questa tecnica e ciò porta inevitabilmente a modellare le proprie idee attorno a determinati vincoli; arrivando a intuizioni e soluzioni che, senza tali vincoli, probabilmente non si sarebbero ottenute.
Lavorare con l’incisione per me significa anche tentare di recuperare quella dimensione di homo faber, padrone delle tecniche oltre che delle idee, prima centrale nelle arti e oggi spesso ignorate o poste in secondo piano.
Incidere, con una tecnica tanto lontana dai nostri tempi come l’acquaforte, il ritratto di SNUB (l’essere protagonista delle mie tele) ad esempio, ha per me un gusto decisamente Pop. Lo stesso che mi suggeriscono lavori demistificatori come la Gioconda di Duchamp o le Marilyn di Ron English.

I tuoi paesaggi ricordano gli spazi inconsistenti di De Chirico e di Dalí, nel tuoi lavori cosa rappresenta il vuoto?

Il vuoto è per me fondamentale. Spesso delineo una figura concentrandomi più sugli spazi e le vibrazioni che genera attorno a sé che sulla sua forma. Ciò che mi ha sempre affascinato in De Chirico, ad esempio, è quella dimensione “sospesa” che pervade i suoi paesaggi. È la stessa sospensione che ricerco nei miei lavori. Si è fuori dal Tempo, ma la dimensione temporale è quanto mai percepibile, quasi palpabile. È un vuoto denso. Come se la scena che si osserva fosse un istante congelato della storia che ci si svela davanti, e da un momento all’altro qualcuno fosse sul punto di premere nuovamente play per far ripartire il tutto. Non c’è niente di fermo quindi, tutto è sospeso; la differenza è abissale.  È l’attimo fecondo teorizzato da G. E. Lessing. Ed è alla cattura di quest’attimo, a questo livello del lavoro, che tende ogni mia singola pennellata.

Nel vuoto inserisci un mondo ben delineato, ma quasi immobile, tra le tue esperienze artistiche hai curato le scenografie di video musicali, come In nome del Padre del gruppo Cor Veleno, cosa cambia quando nello spazio devi inserire l’essere umano in movimento?
Cambia molto. Anche se a volte preferisco che siano gli esseri umani ad adattarsi agli spazi circostanti che viceversa. Lavorare alle scenografie di In nome del Padre (qui con la preziosa collaborazione di Ivan Ibbanez Donadello) e Cantano Tutti è stato davvero stimolante, come credo sia stimolante il confronto con qualunque ambito creativo differente dal proprio. Anche in questo caso, come già accennato per l’incisione, ho dovuto seguire vincoli ben precisi (di spazio, di tempo e di narrazione) ed è stato bello vedere come di volta in volta scenografia, regia e recitazione si influenzassero a vicenda. Inoltre, cambiano anche le modalità di lavoro, soprattutto quando magari si ha poco tempo per realizzare l’intera scenografia e lo spazio su cui intervenire è davvero grande. Per In nome del padre, ad esempio abbiamo dovuto allestire un’intera chiesa romanica oramai in rovina e altre locations secondarie, il tutto in poche ore e iniziando a lavorare quasi prima dell’alba.

Sul tuo sito nel presentarti dici che sei nato nello stesso anno di Ken Il Guerriero e del primo cinepanettone della storia. Ti tocca raccontarci di cosa vuol dire essere coetaneo del triste e solitario guerriero Kenshiro e come sei cresciuto “cibandoti” di film di discusso valore artistico.
Ken Shiro, i cinepanettoni, i Simpson, il boom tecnologico e molti altri fenomeni sono quelli che hanno segnato più di una generazione e in particolar modo la mia. E noi, volenti o nolenti, ci siamo cibati di questi stimoli fin da piccoli, a volte disgustandoci per il sapore altre volte chiedendo il bis. E questo nella mia formazione artistica ha avuto un ruolo centrale.
Quello che per me è importante nell’arte è che tenti di cogliere il linguaggio del proprio tempo e ritengo, inoltre, che ogni contenuto abbia un linguaggio adatto in cui esprimersi (in altre parole la “capacità di vedere” e “la potenza di esprimere” care a Baudelaire). Ecco perché se si intende un’opera d’arte come il risultato della digestione di ciò che si è assimilato, quest’opera dovrebbe in qualche modo richiamare il sapore delle suggestioni da cui ha preso vita. Cosa che trovo accada nel new pop e poi nel pop surrealism (senza stare ora a dilungarsi su tali definizioni e su tutte le differenze a loro intrinseche), in cui penso si colga perfettamente quello di cui parlavo prima, e cioè il gusto dei nostri tempi. Non credo inoltre che altre correnti artistiche ad oggi esistenti abbiano raggiunto tale capacità e soprattutto a tale livello.

Fai parte del progetto espositivo Surreality Show a cura di Sofia Francesca Micciché e Julie Kogler presso lo spazio Officina 468 di Roma, che riapre all’arte dedicandosi al new pop. Officina 468 è uno dei nuovi spazi che nell’autunno romano si aprono alle nuove forme d’arte, credi che la Capitale stia diventando una base di lancio per il surrealismo contemporaneo?
Questo non lo so, sicuramente è ciò che mi auguro. Non c’è dubbio che sul panorama italiano Roma sia una delle città più attive in tale ambito. Grazie ad alcune gallerie e altri spazi dedicati si è creato un contesto dove il confronto e la diffusione di quest’arte sono favoriti rispetto a ciò che accade nel resto del Paese. Quello che a mio avviso manca e che, invece, è fondamentale è la necessaria “conquista” di alcune dimensioni del mondo dell’arte da cui queste nuove tendenze artistiche sono a oggi quasi totalmente escluse. Queste dimensioni di cui parlo sono ad esempio quella del collezionismo, del mercato con la “M” maiuscola, delle mostre in spazi istituzionali o comunque di gran rilievo e quella dei media. È vero che negli ultimi anni fortunatamente ci sono stati momenti che smentiscono quanto appena detto. Ciò che vedo però è come tutto in Italia resti ancora calcificato attorno a realtà appartenenti più al passato che al presente, ma che nonostante questo continuino a tenere ben salde le redini del gioco, senza la minima intenzione di lasciarle. Tale conquista purtroppo presenta un rischio molto grande: quello di perdere la propria identità e di piegarsi a logiche di ben poco valore. Scivolando così in quella dimensione anacronistica del sistema che, come sopra accennato,  sarebbe di fatto da scalzare.
Surreality Show penso sia uno di quei coraggiosi tentativi di portare queste nuove forme d’arte all’attenzione del pubblico di Roma e italiano in generale (il catalogo sarà infatti distribuito in tutta Italia) senza però snaturarsi. Questa esposizione unisce cinque artisti che di fatto rappresentano metà del nostro Paese (Elio Varuna, Jonathan Pannacciò ed io da Roma, El Gato Chimney da Milano e Cristiano Carotti da Terni), tutti perfettamente accostabili nell’utilizzo dei medesimi codici linguistici nonostante la forte identità di ognuno. Ed è proprio questo a mio avviso il valore principale di questo progetto: mettere in luce come all’interno di queste nuove tendenze (figurativiste, pop e surrealiste) esistano numerose realtà che muovono i propri passi partendo dagli stessi stimoli, ma al tempo stesso ben delineate e differenti tra loro. Mentre in Italia, e soprattutto a Roma, questa corrente artistica viene il più delle volte ricondotta ai quadri raffiguranti bambine dai grandi occhi (quantomeno dai non addetti ai lavori). Bambine spesso protagoniste di veri capolavori, altre volte, invece, frutto di vuoti esercizi di stile (ed è questo il problema principale a cui mi riferisco), in ogni caso però solo parzialmente rappresentative di quanto questa “corrente” abbia da offrire. C’è molto altro, è un nuovo modo di fare e pensare l’arte, di immenso valore. Dal sapore fresco e totalmente rinnovato rispetto a ciò che c’è stato fino a pochi anni fa; ed è proprio questo che Surreality Show vuol far capire.